Tirocinio in ASAI. Come abbattere le barriere (di uno schermo)

valentina
 
Valentina Villani è una studentessa dell'Università degli Studi di Torino che si è trovata ad affrontare il tirocinio proprio durante l'emergenza sanitaria. Ecco le sue riflessioni e il racconto dell'accompagnamento a distanza di A., 11 anni.
 
1800 bambini e ragazzi coinvolti, 87 nazionalità rappresentate, 2700 utenti adulti e 640 operatori, fra volontari e tirocinanti. Non sono i dati spaventanti che hanno scandito le diverse fasi di questi primi due mesi di emergenza coronavirus, ma le cifre rassicuranti che colpiscono lo sguardo di chi visita la pagina web di ASAI.
 
La mia esperienza in associazione comincia come tirocinante dell’Università degli studi di Torino presso la sede di Porta Palazzo: 200 ore di tirocinio attivo durante le quali assistere nello studio e nei compiti del doposcuola ragazzi della secondaria di primo grado e bambini delle classi elementari. Un’esperienza realmente formativa, capace di offrire i primi strumenti – tanto didattici, quanto interpersonali – utili a comprendere un mondo scolastico molto più vasto e complesso di quanto generalmente si immagini: laddove il rischio di esclusione sociale è più tangibile, è possibile sanare la frattura attraverso la collaborazione, l’ascolto reciproco, e attività volte non tanto a ridurre le differenze sociali, quanto all’esaltazione del loro valore intrinseco.
 
Ma come tenere fede a questi grandi obiettivi, che hanno a che fare con le pratiche sociali più fisiche e quotidiane, durante un’emergenza sanitaria che ci costringe, all’opposto, all’isolamento?
 
La constatazione più evidente, come tirocinante, è stato il rischio educativo al quale vanno incontro ragazzi che non hanno gli strumenti adatti a soddisfare le principali richieste della didattica a distanza: un computer, per esempio, senza il quale seguire le lezioni previste dalla scuola e raggiungere la piattaforma dedicata alla consegna dei compiti non è facile. In questa direzione proporre appuntamenti telefonici quotidiani per monitorare la situazione e gestire dai propri dispositivi personali le pratiche di consegna più ostiche si è rivelato una buona misura precauzionale all’isolamento scolastico. Questo tipo di tutoraggio se da un lato consente di garantire ai ragazzini, almeno in parte, l’aiuto pratico che l’associazione offriva quotidianamente sul campo, non è l’unica via che noi tirocinanti possiamo seguire per mantenere vivo uno scambio attualmente a distanza. È ancora possibile, nonostante le evidenti barriere spaziali e le scarse condizioni di privacy che molti sperimentano, creare momenti di confronto, ascolto e dialogo.
 
prova
 
A questo proposito porto a testimonianza il caso di una ragazzina di 11 anni, A., che non ho mai incontrato dal vivo, ma che ho iniziato a seguire a distanza in periodo di quarantena. Autonoma nello studio e nei compiti, A. è l’esempio perfetto del rischio sopracitato: avendo a disposizione soltanto il cellulare e non potendo essere aiutata in casa nelle questioni più tecniche, per alcune settimane non ha potuto visitare la piattaforma di classe online. Con il pretesto di risolvere l’ostacolo tecnologico – ed essendomi già stata presentata con grande cura dai tutor come una ragazzina timida, ma anche creativa e con grandi abilità manuali – ho potuto proporre un dialogo volto a conoscere le sue passioni e le sue attività quotidiane. Mostrandomi le sue creazioni – peraltro geniali, come altalene per i pappagalli domestici ricavate da cannucce, il progetto di una casa per le bambole in miniatura o il portacuffie ritratto nella foto qui sopra – è scattato un livello altro di conoscenza, diverso ma forse più intimo, che non avremmo sperimentato altrove: un accesso privilegiato sul suo mondo, la sua casa, il contesto familiare. Uno spiraglio capace di aprire molte altre possibilità, come lo scambio di riflessioni (nel nostro caso anche scritte, tramite una corrispondenza via email costruita sulla tradizione delle lettere) sulle sensazioni che gravitano intorno all’attuale situazione: senso di soffocamento, paure, ma anche (ri)scoperta delle proprie passioni, bisogno di condivisione. Proprio grazie a questi scambi ho avuto la fortuna di scoprire e di muovermi su un’ulteriore dimensione di realtà, a me estranea, ma totalizzante invece per molte delle famiglie coinvolte in ASAI: il Ramadan. È così iniziata una narrazione multidimensionale da parte di A., che mi ha guidata – da questa parte dello schermo – attraverso una pratica lontana, tramite fotografie di ricette preparate in famiglia, disegni e riflessioni socioculturali.
 
Qual è la riflessione che scaturisce da questa esperienza?
 
In una situazione che non possiamo più definire emergenza ma – per i nostri ragazzi, giovani studenti – nuova normalità, diventa importante imboccare vie sconosciute, effettivamente ancora mai calpestate, per mantenerne vivi anche entusiasmo e capacità di interazione sociale.

È indubbio che ogni ragazzo sia diverso, e decida autonomamente se e come condividere le zone più intime del sé con l’altro, ma esistono luoghi comuni a tutti, e preferenziali: il mondo delle loro doti, capacità e passioni. Soprattutto in anni importanti come quelli delle scuole medie, durante i quali i ragazzi devono essere accompagnati nella comprensione del percorso che più li si confà, l’isolamento domestico e la mancanza di quell’autonomia del sé che viene solitamente sperimentata negli ambienti di mezzo, come il doposcuola, rischia di far passare in secondo piano tappe in realtà fondamentali. Se notiamo che un ragazzo ha una passione per il disegno, domandargli di eseguirne uno su un particolare tema, proponendo di vederlo e parlarne insieme durante un prossimo appuntamento da entrambi condiviso, può rappresentare una prova tanto stimolante quanto utile.
 
In ultima istanza, è davvero possibile che lo storico e dibattuto bicchiere possa essere, anche in questo caso, mezzo pieno: essere in qualche modo introdotti nel nucleo domestico dei ragazzi è un privilegio e una fortuna, che ci consente di conoscere e approfondire aspetti interculturali capaci di insegnarci tanto quanto trasmettiamo con il nostro lavoro, ma forse anche di più.
 
A cura di Valentina Villani

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