
Il servizio civile è venuto a coincidere, come si sarà inteso, con un periodo abbastanza travagliato della mia vita, ma quella che inizialmente sembrava solo una scialuppa di fortuna si è presto rivelata un'occasione dall'inaspettato potere terapeutico. I primi tempi, poco prima di svoltare la consueta curva fra corso Marconi e via Sant'Anselmo, ripetevo sottovoce fra me e me: “Bene, adesso indossa la maschera della solarità e lega i tuoi problemi fuori dalla porta come faresti con la bicicletta... senza lucchetto però, così magari è la volta buona che te li rubano”. Poi, immancabilmente, mentre varcavo la soglia e mi preparavo a un'apnea emotiva di sei ore, succedeva qualcosa di sorprendente: entravo nell'associazione e dimenticavo immediatamente la finzione, l'artificio si dissolveva e un sorriso spontaneo si impossessava del mio viso per il resto della giornata. A evocarlo bastava il rito del saluto, quel “ciao, come stai?” che è il primo articolo della Costituzione ASAI. Ed è stato un vero sollievo, perché ho subito intuito che la mia sensibilità non avrebbe necessariamente interferito con la professionalità che mi veniva richiesta, e questo perché in ASAI la fragilità di ciascuno non viene messa al bando, bensì accolta come contributo prezioso all'azione educativo-relazionale. E allo stesso modo vengono rispettate e valorizzate la diversità di idee e di visioni.
Se le Camere del Parlamento italiano si riunissero con la stessa assiduità delle équipe di ASAI, il nostro paese avrebbe una legge elettorale meritevole di chiamarsi tale. Queste riunioni mi ricordano sempre un po' i "momenti collettivi di autocoscienza" del celebre Ecce Bombo di Nanni Moretti: il neo-adepto si ritrova catapultato in una Comune sessantottina affetta dal bacillo dell'ipercomunicazione. In principio è il logos, il regno della logorrea e del politicamente corretto, dove l'eccesso di spazi di confronto e di discussione sembra portare soltanto, attraverso la scrupolosa disamina di ogni punto di vista – compreso quello dell'attaccapanni in fondo alla stanza – all'aporetica conclusione del relativismo universale. Ma questa è soltanto la prima impressione di chi, come me, non ha l'occhio allenato alle sfumature ed è poco incline al compromesso. Lentamente si comprende, infatti, non solo che le parole hanno un loro peso specifico, così come le opinioni, e bisogna saperle ponderare, ma anche che un organismo così articolato come quello di un'associazione non può funzionare se non lubrificato capillarmente da un costante, e a prima (s)vista ridondante, dialogo fra colleghi e collaboratori. Come sa bene qualunque civilista – questo strano, transitorio ibrido fra il dipendente e il volontario stagionale – inserirsi all'interno di dinamiche già consolidate, e capirle, non è mai facile; partecipando alle varie tavole rotonde di coordinamento, sto perdendo progressivamente la mia presuntuosa impulsività di giudizio e affinando facoltà prima sopite: ascolto e osservazione. Ho acquisito la divina facoltà dell'esitare e ora conto fino a tre prima di pronunciare un verdetto di assenso, dissenso o stupidità. Alla fine dei giochi propendo quasi sempre per una sana sospensione del giudizio, una resa di fronte alla complessità contraddittoria del mondo. Che in pratica è il segreto della convivenza nell'umano consorzio: concedere al prossimo il beneficio del dubbio. Stare con gli altri, starci veramente, significa essere disposti a uscire dalla propria filter bubble, dalla bolla asfittica dei propri dogmi intellettuali e diventare permeabili. Si tratta di uno straniante esercizio di sguardo: imparare a vedere l'altro senza pretendere di vedervi l'identico, senza proiettarci sopra se stessi come in uno specchio, bensì riconoscendolo nella sua radicale alterità e irriducibile opacità.

Quel che è certo è che, in questi primi mesi di servizio, ho compreso che la mia funzione non si limita all'intrattenimento ludico-ricreativo ma ha un'azione formativa, un'influenza tangibile sulla crescita dei giovani che mi sono affidati, di cui devo sentirmi perciò responsabile. Passione ed entusiasmo sono gli unici mezzi, e forse le uniche qualità, di cui dispongo. Al colloquio di selezione non mi era stata certo menzionata fra i requisiti imprescindibili alcuna competenza di capoeira o abilità come goleador da calciobalilla outdoor a -5° gradi, né tantomeno il dono dell'immortalità. Al terzo raffreddore e alla quarta influenza maturata nel giro di un paio di mesi, anche il sistema immunitario della più accanita ipocondriaca, quale io sono, abbandona il regime delle dogane e delle frontiere e adotta verso virus e batteri la politica cosmopolita – o realista – dei No Borders. Ma si sa, quello che non ti uccide, ti fortifica. E il servizio civile non è altro che una straordinaria palestra di adattamento, una prova di sopravvivenza da cui spero emerga, o forse nasca, la versione migliore di me.