Migranti, lavoratrici, madri. La voce delle donne dello Sportello Lavoro

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Victoria, Helen, Halima e tante altre: chi sono le donne che arrivano allo Sportello Lavoro di ASAI? Quali storie portano con sé? I loro racconti ci invitano a considerare il problema della “catena globale della cura” che coinvolge il contesto di arrivo e quello di partenza.
 
La catena globale della cura include da un lato i problemi delle famiglie italiane, del nostro welfare e dei bisogni per l’assistenza ai non autosufficienti e, dall’altro, le conseguenze sociali del flusso delle migranti. Entriamo così nella sfera più intima dell’esperienza migratoria: quella del rapporto tra moglie e marito, tra genitori e figli, fino all'ambito dei diritti di genere e dell’autodeterminazione.
 
 
VICTORIA
 
Mi chiamo Victoria e sono venuta in Italia nel 2003, da Cuzco, Perù. Avevo la speranza di trovare un lavoro che mi permettesse di guadagnare meglio che al mio Paese. Avevo conosciuto una persona italiana che mi aveva convinta che qui avrei potuto avere un buono stipendio facendo il mio lavoro di infermiera. In quel momento avevo problemi economici perché in Perù gestivo una piccola farmacia che doveva fare i conti con la forte concorrenza di farmacie straniere. Ho dovuto chiudere il mio negozio e la mia situazione economica è cambiata in peggio. Mi ero illusa che venire in Italia sarebbe stata la soluzione ai miei problemi: volevo lavorare qualche anno per poi ritornare a Cuzco.
 
Sono rimasta impressionata dall’impatto con la società italiana che è molto diversa dalla nostra: le abitudini, il modo di vestire, di mangiare. Mi colpivano i ragazzi che trovavo molto moderni: voglio dire che erano vestiti con roba firmata, anche i più piccoli. Questo mi colpiva tanto perché in Perù esistono posti dove i bambini sono molto poveri e non hanno niente di mangiare e neanche le scarpe e fanno lunghe code nelle istituzioni dello Stato o nelle ONG, come quella dove lavoravo come tecnica di infermeria, per chiedere cibo e vestiti.
 
Il mio arrivo in Italia non è stato facile. Sono atterrata a Roma e mi sono ritrovata da sola, ero arrivata con altre tre persone che però hanno presso il loro cammino. Io ero molto spaventata ma grazie a un’amicizia sono venuta a Torino nella casa di una signora della mia città che mi ha dato alloggio. Dopo un po’ sono andata a fare l’assistenza a un’anziana e nella sua famiglia mi sono trovata davvero bene perché mi hanno trattata come una figlia. Conoscendo la mia situazione, mi hanno aiutata a portare in Italia mio marito e mia figlia. Ho continuato a lavorare fino a quando è mancata la signora che assistevo; adesso lavoro in una comunità che accoglie donne in difficoltà.
 
 
HELEN
 
Il mio primo ricordo dell’Italia è il senso di solitudine e la profonda nostalgia che provavo mentre il treno entrava nella stazione di Porta Nuova: nostalgia dell’aria della Nigeria, dei volti rassicuranti della mia gente e della mia famiglia, anche se è proprio a causa di quest'ultima che sono stata costretta a venire in Italia, per rincorrere il futuro che mi è stato negato.
 
I miei genitori si sono separati quando io avevo diciotto anni, mio padre ha deciso di sposare un’altra donna e di lasciare mia madre e noi figli, sette fratelli. Quella decisione ha cambiato per sempre il nostro futuro. Per me era insopportabile l’idea che le mie amiche, con cui avevo condiviso progetti e speranze, andassero all’università mentre io dovevo rinunciare per colpa di miei genitori. Ancora oggi, dopo due anni che sono partita, non riesco a perdonarli, non mi mancano e anche se saranno sempre coloro che mi hanno dato la vita, questo rimarrà il mio unico legame e il solo motivo di affetto nei loro confronti.
 
Ho deciso di partire non appena ho capito che non c’erano prospettive per me in Nigeria e l’unica possibilità era fuggire in Europa, per rincorrere e guadagnarmi il futuro, verso quei mondi che mi si mostravano alla televisione, verso la ricchezza, il benessere dove c’è posto per la felicità di tutti. Questa è l’idea con la quale sono partita, perché quando soffri e desideri fuggire dal tuo destino non vuoi e non puoi credere alle storie di disperazione e di delusione che ti vengono raccontate.
 
Non avevo considerato l’enorme ostacolo di una lingua sconosciuta, l’impossibilità di comunicare, di andare oltre gli sguardi di disprezzo che ogni giorno incrociavo sul pullman che mi portava al mio nuovo lavoro. E avevo bisogno di soldi, subito, pertanto ho dovuto accettare l’unico modo possibile per guadagnarli, l’unica strada per sopravvivere senza il supporto dell’italiano. In quel momento sapevo di non avere altre possibilità, ma dentro di me pianificavo di andare alla polizia e chiedere aiuto non appena ne avessi avuto l’occasione. Mi sentivo molto sola e incompresa: le mie compagne avevano scelto consapevolmente “quella vita” che ti uccide giorno dopo giorno, dandoti in cambio un facile guadagno, mentre io avevo tutt’altre aspettative e non ho mai smesso di crederci.
 
La fortuna si è presentata una notte nei panni di quello che oggi è mio marito, la mia famiglia e il mio migliore amico, la prima e unica persona che non solo parlasse un po’ di inglese ma avesse anche la curiosità di capire e ascoltare perché fossi lì. Dopo sei mesi ero salva.
 
Ormai è trascorso quasi un anno, sto frequentando la terza media italiana e voglio imparare perfettamente l’italiano, ho solo ventidue anni e desidero continuare gli studi, riprendere da dove ho lasciato in Nigeria, iscrivermi un giorno a medicina e diventare dottore.
 
 
HALIMA
 
Nel mio percorso migratorio le difficoltà più grandi le ho incontrate con i figli. Quando siamo arrivati in Italia, il maggiore aveva 15 anni e voleva fare tutte le cose come gli italiani. Quello è stato il mio problema, prima cosa. Il grande si è sposato presto con un'italiana che è rimasta incinta. Tanti problemi, capito? Era ancora piccolino, non ha neanche 20 anni adesso.
 
La difficoltà più grande è stato l'adattamento, è il problema più grande di tutti noi stranieri. Per i ragazzi la cosa più dura è accettare il fatto che non possano fare tutte le cose dei loro coetanei italiani. Non è solo un problema di soldi, è anche un problema di mentalità, di cultura.
 
La cosa che mi piace di più dell'Italia sono le donne. Le italiane mi piacciono! Tanto. Tanto. Io spero che un giorno diventerò come loro perché sempre stanno sopra gli uomini. Ho trovato che la prima parola è loro perché qui conta la parola delle donne. Quello che mi piace tanto, lo dico a tutti, è che non è come da noi, dove sempre la donna sta giù. Molte marocchine devono portare il velo ma non è questo il problema. Alcune portano il velo e altre, non so come dire... Beh, speriamo che le parole delle donne contino un po' di più, la parola della donna deve essere uguale a quella dell'uomo. Sì, uguali... tutti insieme. No, da noi no. Non è come qua. Quello è il nostro problema.
 
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