
Poiché le attività di sostegno non si sostituiscono all’insegnamento tradizionale, i docenti diventano gli interlocutori privilegiati per la costruzione di una efficace strategia comune che mira ad aprire domande nuove, a fare proposte concrete e a leggere i ragazzi nella loro complessità di studenti e persone. I progetti di sostegno allo studio funzionano quando la metodologia è condivisa e quando entrambe le parti – scuola ed extrascuola – condividono responsabilità, obiettivi e strumenti, senza snaturare il ruolo di ognuno.
In questo quadro bambini e giovani sono i protagonisti principali della costruzione quotidiana di spazi e contenuti. Il loro aggancio è fondamentale: in un primo momento, esso avviene in modo “informale” attraverso incontri e chiacchierate. In un secondo momento arriva una formalizzazione che non ricalca in tutto e per tutto l’ambiente scolastico, ma offre una prospettiva complementare. L’aggancio è alla base della tenuta del percorso e va costantemente monitorato per favorire il passaggio dal mero servizio al senso di appartenenza e, infine, alla presa in carico di attività e spazi da parte dei partecipanti.
In media il patto educativo ha una durata di tre anni, un periodo sufficientemente lungo per seguire bambini, ragazzi e nuclei familiari all’interno di un percorso di crescita durante il quale il patto è riformulato per adattarlo ai cambiamenti in atto. Il coinvolgimento delle famiglie avviene a livelli differenti, a seconda della necessità e del livello di disponibilità degli interlocutori. A volte una semplice telefonata è sufficiente a mantenere l’aggancio.
Pur avendo confini rigidi, il patto formativo non è un modello precostituito ma conserva dei margini di flessibilità che lo rendono un processo in itinere fondato su ascolto, negoziazione e continua riprogrammazione. Ribadire le regole e rinegoziarle serve a condividere i cambiamenti e a dare dei rimandi da parte di operatori e volontari che, attenti a essere non cadere nel ruolo di “amiconi”, accompagnano i ragazzi all’acquisizione progressiva di strumenti cognitivi e relazionali come il rispetto, la reciprocità, la costanza e la corresponsabilità nella gestione del servizio.

L’ascolto è lo strumento principale di tale processo: avviene in spazi strutturati, come le discussioni in cerchio o i laboratori, o in spazi destrutturati, per esempio in corridoio o durante una partita a biliardino. Può essere a due all’interno di una relazione privilegiata, o tra pari in un gruppo che funge da contenitore non giudicante, capace di rimandi formativi di grande impatto sul singolo e sull’insieme. Il gruppo è un insieme eterogeneo, complesso e accogliente dove si instaurano rapporti plurimi basati sul dare e sul ricevere, in uno scambio continuo di risorse.
Davanti alla grande “fame di relazioni autentiche”, l’educatore si pone come soggetto in ascolto e, spesso, come mediatore tra ragazzi e volontari. I volontari, in particolare, sono i primi attivatori del territorio e vanno valorizzati secondo le competenze di ognuno, per mantenere la relazione di fiducia fatta di vicinanza/prossimità che permetta di centrarsi sulla relazione e non sull’attività. A volte il rischio degli operatori è quello di invertire questa priorità: oltre ad avere competenze organizzative, gli educatori non devono perdere di vista alcuni principi basati sul “ti vedo, ti considero, ti metto /mi metto in gioco”. Via via che i numeri aumentano è sempre più difficile dedicarsi a questo aspetto di cura, eppure il tempo investito sulle relazioni è il perno del lavoro educativo.
